La nuova moda è declassare. Così muoiono le Denominazioni del vino italiano

Un trend “benedetto” dal clamoroso “vino d’italia” di Vespa e Masi Agricola. Ma non solo. Ragioniamoci


EDITORIALE –
Declassare uve e terreni è ormai diventata una “moda” in Italia, se non una tentazione incalzante tra i produttori. Un fenomeno che dimostra la crisi delle Denominazioni del vino italiano, che paiono contare sempre meno. Forse perché sono ormai tutto tranne che una garanzia?

In Italia, più che Doc o Docg, sono molti i produttori che virano su vini Igt o persino sul “Vino da tavola”. E non serve poi tanto chiamarlo poeticamente e religiosamente “Terregiunte“, come il “Vino d’Italia” di Vespa-Boscaini & Co, che altro non è che un Tavernello, solo col nome (e gli interpreti) più “fighi”: tanto arditi da usare il nome di una Doc e di una Docg per avvalorare un’operazione biecamente commerciale, più che enologica.

Se da un lato ci sono vignaioli che fanno di tutto per “esaltare il terroir”, e Consorzi come quello del Soave che tentano, attraverso le Unità geografiche aggiuntive, di valorizzare la tipicità dei singoli cru della Denominazione, a girar per vigne e cantine del Bel paese capita spesso di rimaner più colpiti dagli Igt che dai vini Doc o Docg.

Caso eclatante, capitato di recente durante il tour di WineMag.it in Calabria, quello di Cantina Enotria, a Cirò Marina. Igt di altissimo livello: veri, col vitigno nudo e “crudo” al naso e al palato, belli da morire. E i Doc ad uso e consumo del mercato internazionale, abituato a un gusto ormai standardizzato, che tende allo zuccherino.

Non è un caso la crescita esponenziale delle vendite dei vini a Denominazione in un settore come la Grande distribuzione organizzata. Notoriamente, chi è abituato ad acquistare vino al supermercato guarda innanzitutto il prezzo, prediligendo i vini con la “fascetta di Stato” più perché rassicurato sul fronte della contraffazione, che a garanzia di bere un vino di qualità, intesa come “rispetto” del vitigno e della Denominazione (che spesso neppure conosce).

Invece, nel mondo del vino di nicchia, spesso vale l’opposto. Il vignaiolo rinuncia alla Doc (o alla Docg) perché non ha bisogno che un disciplinare gli dica quanta uva raccogliere in quel vigneto: diraderà a priori, fottendosene della scartoffia ministeriale e consortile.

Il vignaiolo bypassa le regole dei Disciplinari perché sa che, nel 90% dei casi, il suo Igt o “Vino da tavola” vale – nel calice – più di quanto qualsiasi sgangherata e politicizzata commissione di degustazione possa sancire, durante gli assaggi dei campioni.

Lo stesso vignaiolo a cui, spesso, non viene riconosciuto il merito della valorizzazione del terroir in cui opera, costringendolo a “rivedere” ciò che è invece il semplice frutto della propria terra: magari non rispettoso dei canoni commerciali imposti dalle Denominazioni, ma veritiero del vitigno e del microclima, senza troppe correzioni enologiche, che spesso hanno tragico “effetto standardizzante“.

Succede poi che Consorzi come quello del Prosecco Superiore di Conegliano Valdobbiadene, diviso secondo indiscrezioni tra il fare “massa critica” con la Doc – unendosi persino sotto l’egida di un solo organismo, che decida della Glera veneta e friulana in maniera collegiale – o “contrastarla” eliminando addirittura la parola “Prosecco” dall’etichetta, ricerchi paradossalmente le ragioni della flessione dei prezzi delle uve (e delle vendite delle bottiglie) nel fenomeno dei vini base Glera non rivendicati.

Una presa di posizione assurda agli occhi di chiunque abbia mai provato un Igt Treviso prodotto sulle colline Unesco (dunque a Valdobbiadene, mica a San Polo di Piave) da gente come Eros Zanon, per citare solo uno che da anni non scende più a “compromessi” con nessuno, tantomeno con la politica. Nes-su-no, chiaro? E non è solo, Zanon.

In un quadro di forte incertezza per il futuro del vino italiano – stretto tra Brexit, Stati Uniti che sono più l’Eldorado di una volta e la concorrenza sempre più pressante del Nuovo Mondo – ci mancava solo il placet politico del governatore del Veneto Luca Zaia e dell’omologo pugliese Michele Emiliano al “Vino d’Italia” di Bruno Vespa e Sandro Boscaini (Masi). Un blend che, se non altro, ha il merito di diagnosticare il momento di panico.

COSA MANCA? UNA PROGRAMMAZIONE SERIA
La Doc Sicilia riduce le rese del Grillo, dopo aver scontentato molte aziende isolane col divieto di produrre vini Igt Terre Siciliane col noto vitigno isolano a bacca bianca e col Nero d’Avola (a ribellarsi sono anche “big” come Duca di Salaparuta, che di fatto continua a produrre Igt, forte di una sentenza europea a proprio favore).

Non va meglio al nord. La Doc Venezie del “fenomeno” Pinot Grigio, il Barolo, il Consorzio Asolo Montello e il Consorzio Tutela Vini Valpolicella guidato Andrea Sartori bloccano gli impianti dei nuovi vigneti per i prossimi tre anni.

Di lì a poche settimane, una delle cantine che meglio rappresenta la storia del vino veneto (Masi Agricola) annuncia di aver sostanzialmente declassato le uve Corvina, Rondinella e Molinara del proprio vino simbolo.

Si tratta di quello che la stessa cantina di Sant’Ambrogio di Valpolicella definiva fino a ieri “gigante gentile che assieme a Barolo e Brunello rappresenta l’aristocrazia dei rossi italiani”, ovvero “Costasera“. La priorità, ora, sembra essere il matrimonio “Nord-Sud” col Primitivo “Raccontami” del giornalista e conduttore tv più “plastico” della storia della Repubblica, Bruno Vespa.

Che il mondo del vino italiano stia andando verso la direzione di una “Doc Italia” è ormai chiaro a tutti. Del resto, il nostro tricolore e quella scritta “Made in Italy” sulle bottiglie (come sui sui capi d’abbigliamento) è una delle poche cose che ancora funziona del nostro Paese.

Una formula, “Made in Italy”, utile come strumento di promozione di un terroir, non di una minestra che rischia di creare ancora più confusione in un mercato già di per sé confuso e fortemente frammentato come quello del vino italiano nel mondo.

E non a caso Vespa promette (alla stampa compiacente) di vendere alla grande “Terregiunte” in Cina, Paese dove potrebbe andare a spiegare, magari assieme al signor Boscaini, le differenze tra Manduria e la Valpolicella, al posto di rovesciare semplicisticamente nello stesso calice una Docg e una Doc distanti tra loro mille chilometri.

LE RESPONSABILITÀ DELLE COMMISSIONI DI DEGUSTAZIONE
Dunque, per favore, abbiate almeno la decenza di non spacciare questa operazione come innovativa e salvifica per l’Italia del vino. Non parlate di “matrimonio” mentre sputtanate l’Amarone.

Non usate il nome di una Docg (col beneplacito delle istituzioni che costituisce l’aggravante, non il salvacondotto) per promuovere un vino che farete pagare come 30 bottiglie di una Glera Treviso Igt molto più rispettosa delle colline di Valdobbiadene (e dell’Unesco) di tanti Docg “fascettati” di zucchero.

E un altro favore, mica a me, ma al mondo del vino italiano: date un taglio alle commissioni tecniche di degustazione delle Denominazioni. Mica un taglio, inteso come “taglio”, “zac”, “tutti a casa”.

Intendo un taglio “commerciale”: fate andare a degustare i buyer (che so? Quelli della Gdo internazionale), assieme agli agronomi ed enologi nostrani, in imbarazzo a bocciare i vini dei colleghi al soldo degli imbottigliatori (etichette che poi finiscono al Lidl, con tanto di fascetta di Stato e sputtanamento della Denominazione, a 1,60 euro).

Ditelo chiaro e tondo che, in quel contesto, passano l’esame i vini destinati a un mercato di massa, o tutt’al più all’estero. Solo così si tornerò a dare centralità ai vitigni. A chi li rispetta per davvero. E a chi avrebbe voglia di vedere la Denominazione sulla propria bottiglia, al posto di rifugiarsi nell’Igt, perché nel proprio territorio crede davvero. Al di là del Dio Denaro.

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